La teatroterapia è una disciplina delle arti terapie riconosciuta dalla legge ministeriale di recente approvazione.
Può essere applicata in ambito preventivo, educativo e terapeutico.
Intervista a Walter Orioli
1 - Qual è la definizione di
teatroterapia?
E’ la messa in scena dei
propri vissuti, all’interno di un gruppo, con il supporto della cultura
psicanalitica dei principi di presenza scenica derivati dal lavoro dell’attore;
consiste principalmente nella conoscenza di se stesso partendo delle proprie
emozioni e di come queste sono espresse dal corpo.
La teatroterapia implica
l’educazione e la percezione del movimento corporeo e vocale, un minuzioso
lavoro pre-espressivo indispensabile alla creazione di quell’altro da sé
che rende possibile e consapevole la reazione terapeutica.
2 - Cosa si intende per
lavoro pre-espressivo?
Il lavoro dell’attore su se
stesso, in altri termini imparare a camminare, saltare, cantare, ballare, agire
nello spazio con una profonda consapevolezza del proprio corpo nel momento
presente. Un training che viene prima dell’espressione ed è fondamentale per
la sua manifestazione, senza del quale non facciamo che scimmiottare gesti che
conosciamo o abbiamo già visto da qualche parte. Nel lavoro pre-espressivo il
corpo è vissuto come strumento d’esplorazione, una specie di terreno da curare
perché possa dare i frutti desiderati.
Ci sono almeno quattro
livelli pre-espressivi: quello tecnico derivato dall’antropologia teatrale,
quello percettivo sensoriale di origine primitiva, quello libero legato al
gioco e quello parzialmente regressivo per scoprire l’essenza del gesto.
Durante i primi incontri, il
linguaggio non verbale mostra un corpo aperto che si esprime attraverso lo
stile dei suoi movimenti, le posture, la mimica del viso ovvero le speciali
maschere che celano la piena affettività inconscia. L’obiettivo delle sedute
consiste nel depurare il rapporto tra corpo, voce, mente e spirito nella
relazione con l’altro, gli altri, se stesso al fine di custodire i
mascheramenti conosciuti e sviluppare altre mitologie.
Solitamente gli effetti
delle sedute di gruppo continuano a produrre un dialogo interiore sul singolo,
anche dopo la seduta stessa, poiché gli stimoli ricevuti entrano a far parte di
un’esperienza profonda che la persona può parzialmente integrare nella vita di
tutti i giorni.
Sia chiaro in ogni modo che
la teatroterapia non produce diagnosi, né interpretazioni psicologiche e non
può sostituire cure farmacologiche, ma le affianca, rafforza nuove visioni di
sé.
Agisce attraverso la rappresentazione di personaggi
principalmente improvvisati, una fonte inesauribile delle bizzarrie inconsce,
ma anche e soprattutto autocostruzione dell’ordine simbolico
nell’attore-paziente.
Dal punto di vista scientifico siamo in una fase
ancora sperimentale, oserei dire pre-scentifica e pre-epistemologica, ciò
nonostante, possiamo considerare la teatroterapia come una rete relazionale di
un sistema costituito da una struttura di processi attivi, misurabili
attraverso la maturità evolutiva del gruppo. Questa crescita è rappresentata
dalla capacità dei singoli individui di sviluppare le proprie dinamiche
creative ed i propri processi intrapsichici con modalità performative. In
questo senso il teatroterapeuta è colui che, maturando nei suoi processi, umani
e professionali, è in grado di dirigere il gruppo, contenerlo e re-indirizzarlo
continuamente verso drammaturgie collettive.
5 - Lei dal 1995, con “Far teatro
per capirsi”, ha intrapreso una parallela carriera come autore di libri. Nel 2001
“Teatro come terapia” e poi con il manuale “Il gioco serio del teatro” del 2007
ha voluto tracciare le basi scientifiche dalla materia. Pensa di esserci
riuscito?
Solo attraverso l’osservazione sistematica dei
fenomeni performativi sviluppati in questi ultimi cinquant’anni, che hanno
riguardato soprattutto il teatro sperimentale, dall’applicazione del metodo
Stanislavskij, alle ricerche di Artaud, ma principalmente di Grotowski e le
ultime di Barba, alcuni psicologi e psicoanalisti possono ora riconoscere i
possibili presupposti epistemologici di questa nuova disciplina che chiamiamo teatroterapia.
Nei primi anni del Novecento, mentre Freud
strutturava la psicanalisi, Konstantin Stanislavskij, nella Russia degli anni
Venti, elaborò la teoria della riviviscenza, al cui centro vi è l’attore che
crea il “sottotesto” per provare a vivere, indotto da un intenso sforzo
emotivo, ed interiorizzare il personaggio. Egli sostiene che l’attore ogni
sera, alla stessa ora, deve poter volontariamente far nascere in sé le emozioni
attingendo dalla biografia del personaggio, dal suo comportamento, dalle
circostanze dell’azione; l’attore attraversa un processo psicologico che
scatena in lui il sentimento reale, “vive” l’evento e le sue conseguenze;
anziché accontentarsi di re-citare a memoria la parte, crea un’autentica
motivazione e si mette in gioco.
Tutto in lui concorre a questo scopo, non solo il
pensiero, ma anche i suoi nervi, le sue ghiandole, il suo respiro. La parte
psichica coinvolge quella fisica, è la scuola del “rivivere” opposta a quella
del “rappresentare”.
Stanislavskij costruisce un metodo per utilizzare la
memoria emotiva come canale per liberare l’affettività inconscia. Egli sostiene che il ricordo di una vicenda
personale dell’attore può aiutarlo, in scena, a scatenare un’emozione
sovrapponendola al personaggio così da comunicare al pubblico una verità
emotiva che lo coinvolgerà. In altri termini, per provare un’emozione sincera,
Stanislavskij ricorre ad un inganno psicofisico. Non solo truccarsi e vestirsi
come il personaggio, ma camminare, comportarsi come lui, compiere delle azioni
fisiche per suscitare l’emozione, secondo il detto: “Piango, e finisco per
essere triste” oppure “Corro e finisco per avere paura”.
All’epoca delle sue ultime ricerche, Stanislavskij
si proponeva di trovare il segreto del ritmo, di cui sospettava la diretta
azione sul sentimento.
Proprio dalla qualità dell’azione corporea nello
spazio che ha inizio la ricerca di Jerzy Grotowski, un tempo regista, oggi
riconosciuto come scienziato dell’educazione. Buona parte della ricerca del suo
“Teatro laboratorio”, oltre ad essere non verbale, non era facilmente
concettualizzabile.
Grotowski non voleva che si razionalizzasse il
lavoro come se nel lavoro dell’attore non ci fosse spazio per
l’intellettualizzazione. Egli spesso diceva: “Occorre agire e usare il linguaggio di immagini, non il linguaggio che
chiama le cose con i loro nomi”. Così iniziò a lavorare su catene di azioni
senza senso, le quali non fanno riferimento all’intelletto, ma alla totalità
dell’essere.
E’ evidente quanto in questo lavoro ci sia
un’influenza della tecnica psicanalitica delle associazioni libere. Nel Teatro
delle Tredici File di Opole in Polonia, Grotowski applica il training autogeno
di Schulz, gli esercizi plastici di Delsarte e l’hatha yoga che amalgamandosi
fra loro a poco a poco si definiscono in una disciplina originale, che assume
negli anni Settanta le dimensioni di una vera e propria filosofia pedagogica e
non solo per il teatro. Alla sua base vi è il concetto di teatro povero
dove l’attore è talmente povero da non possedere più neppure il personaggio, ma
recita come se stesse accanto al suo ruolo.
Questa
ricerca non ha nulla a che vedere con lo psicodramma ma con un minuzioso lavoro
sul corpo in azione, il canto come suono vocale che diventa parola, la danza
acrobatica nello spazio, le suggestioni immaginative e la ritualità primitiva a
cui noi ci siamo ispirati fin dagli anni Ottanta per elaborare una metodologia
che oggi chiamiamo teatroterapia.
Vi è una differenza sostanziale tra il lavoro di
Moreno e quello del teatro in funzione terapeutica o di crescita umana, una
discriminante che determina la differenza, ovvero il processo artistico. Nello
psicodramma l’attore spontaneamente improvvisa una parte, che sarà fonte di
catarsi profonda tra sé e il personaggio, spesso ispirato alla sua vita reale.
Nella teatroterapia l’attore si prepara al lavoro attoriale con esercizi
pre-espressivi ricavati dall’antropologia teatrale, quindi lontani dalla sua
vita reale, è educato allo stare in scena da un training particolare che fa i
conti con l’arte della presenza consapevole. Inizialmente è chiesto
all’attore-paziente di non rappresentare nulla, ma di fare molta pulizia delle
sue buone maniere, delle sue resistenze all’azione spontanea. Il processo di
educazione alla scena va di pari passo con l’affrontare le sue resistenze, ma
molto dolcemente.
Nello psicodramma si arriva subito e decisamente al
nucleo della nevrosi o della psicosi, in teatrotroterapia la mediazione
artistica permette un percorso più dolce. E’ il paziente che decide quando è il
momento di approfondire il conflitto, o meglio, è la trasposizione artistica di
corpo, voce, movimento a decidere la poetica terapeutica. Ricordiamo inoltre
che l’arte, solitamente, supera l’artista che la produce e non può essere
certamente costituita dalle sue miserie quotidiane.
7 - Quindi lei non usa lo psicodramma in teatroterapia?
A volte, in alcuni gruppi, quando devo smuovere una
situazione che mi sembra stagnante inserisco qualche esercizio psicodrammatico,
oppure un’inversione di ruolo, come faceva Moreno. Ma è molto raro, solitamente
la metodologia dell’intervento comprende un lavoro di ascolto e di movimento
derivato dalle origini del teatro quindi dal rito collettivo.
8
- In quali ambiti si applica la teatroterapia?
In campo preventivo
la pratica dell’attore agisce su eventuali blocchi nella creatività che si manifestano
in resistenze ad assumere nuovi ruoli e farli propri. Sappiamo che il lavoro
corporeo rende mobili le cariche pulsionali, ricreando quel piacere verso gli
oggetti, spesso fonte di conflitti e che il piacere di recitare e di mostrarsi,
rinvigorisce il dialogo interiore tra corpo, mente, spirito, creando le
condizioni per l’autoanalisi dei vissuti.
In ambito terapeutico il teatroterapeuta,
psicologo e teatrante specializzato, cura il paziente inserendolo lentamente
nel gruppo di terapia a mediazione teatrale, portandolo con gradualità a
riprendere contatto con il corpo, la voce, il patrimonio gestuale, la ritualità
e infine l’espressione artistica. Spesso il teatro serve a mettere in contatto
la parte sana con quella “malata” per poterle integrare o farle accettare così
come si esprimono.
Come forma di terapia è
adatta soprattutto per soggetti nevrotici non strutturati, i quali possono
scoprire le capacità perdute, ma anche per i nevrotici strutturati e i casi di
“border line” che, proprio attraverso la ripetizione, trovano quella struttura
che permette loro di sviluppare l’io adulto. Nelle depressioni, come nelle
forme di autismo, il teatro, lentamente, apre spiragli di comunicazione che
sono il preludio al cambiamento.
Nei casi di psicosi grave, al momento non è ancora
stata sperimentato a sufficienza, si consiglia di partire dal lavoro sul testo,
utilizzando in modo limitato i processi regressivi sia espressivi sia
pre-espressivi.
In ambito riabilitativo con carcerati,
tossicodipendenti, disabili, non vedenti, persone anziane, il teatro è usato
per scopi di risocializzazione, in quanto l’attività teatrale riporta il
soggetto in contatto con la spontaneità, aiutandolo a riscattarsi dalle paure
del passato.
9 - Anche nell’educazione è
applicabile la teatroterapia?
Negli ambiti della comunicazione educativa e formativa gli scenari che si aprono sono
molteplici: dal teatro in funzione pedagogica, ben conosciuto nelle scuole, ai
laboratori di teatroterapia nella funzione aziendale, alla performance come
strumento di progettazione delle esigenze di una comunità. Le applicazioni sono
molte, ma il rilievo più interessante e importante è l’influenza delle poetiche
teatrali del ’900, da Artaud a Grotowski, sulla cultura pedagogica attuale.
Nelle nuove facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione si studiano i
processi che la ricerca teatrale ha svelato nelle oscillazioni fra autorità e
libertà personale, fra cultura e natura, fra coscienza e vita, fra finzione e
verità.
Paradossalmente nel teatro
di ricerca la finzione induce alla verità in quanto, nel lavoro di preparazione
allo spettacolo si sciolgono le resistenze dell’organismo al processo psichico.
Secondo Grotowski, formare un attore non significa insegnargli qualcosa, ma
eliminare le resistenze, le reticenze e le buone maniere che non permettono l’atto
totale. Se la relazione educativa è costitutivamente qualcosa che si
scontra con una resistenza psicofisica, il lavoro sul corpo libera energia
pulsionale stagnante rimettendo in gioco il rapporto tra anima e corpo.
Processo psicoterapeutico e educativo sono letti come vie per l’eliminazione
progressiva, ma pur sempre parziale, delle resistenze psicologiche. Se è vero
questo, non basta lasciarsi andare, essere spontanei, ma è necessaria una tecnica,
una disciplina che ha un suo metodo e un suo setting.
Ciò nonostante un buon
educatore, come un buon terapeuta, adotta un atteggiamento plurivalente, dove
si rende disponibile ad accettare i comportamenti dei fruitori.
Su questa posizione,
sanamente ambivalente, agisce la teatroterapia in funzione educativa,
discostandosi in parte dall’idea che le rimozioni vanno necessariamente
eliminate più in fretta possibile per far fronte ai blocchi emotivi. Infatti,
il modello della complessità dell’essere umano e del suo mondo relazionale
interno come esterno, ci inducono a credere che l’altro va accettato così
com’è, senza pretendere di cambiarlo in quanto ciò implicherebbe un
atteggiamento unilaterale.
10 - E’ previsto
l’allestimento dello spettacolo?
La teatroterapia, come si è
detto in precedenza, è un fatto artistico che riveste un ruolo specifico
nel campo delle arti teatrali, nonostante la finalità non sia prioritariamente
quella della produzione artistica, è innegabile la possibilità di un processo
estetico durante la costruzione della drammaturgia dell’attore come del gruppo
o del regista. Dall’altro canto la costruzione tecnica della scena è poco
prevedibile, in quanto non si lavora al fine di mostrare il prodotto a
spettatori esterni al processo, ma per crescere e conoscersi meglio. A volte,
queste “transizioni performative” sono talmente belle e spettacolari che nasce
l’esigenza di presentarle ad un pubblico educato a comprendere il processo.
11 - Cosa si intende per
curare con il teatro?
Al centro della nostra
riflessione c’è il modello della malattia mentale in termini di vulnerabilità,
cioè di processo d’interazione fra disturbi primari e le strategie
d’adattamento che possono configurarsi in diversi “stili” personali, di fuga
nelle tenebre, della follia conclamata oppure in diversi modi di arroccamento
difensivo e di organizzazioni patologiche.
Lo sviluppo della personalità
umana è molto complesso ed il teatro è un gioco per svelare, almeno in parte,
la debolezza e la forza del mondo simbolico interno. Si gioca nell’area
intermedia, uno spazio che Winnicott dice essere posto tra interno ed esterno
dell’individuo; in questo setting di libertà espressiva possiamo permetterci
tutto, anche di essere più veri.
12 - Si possono “guarire”
patologie gravi con la teatroterapia?
Di fronte a una persona disturbata ci si chiede: che
tipo di follia soffre costui? Di una nevrosi o di una psicosi? Nel caso soffra
di psicosi ci si chiede di che tipo. Se soffre di schizofrenia ci si chiede di
quale sottospecie di schizofrenia sia affetto. E poi ancora, indaghiamo per
capire se i sintomi psichiatri sono legati a qualche anomalia celebrale.
In realtà non esistono
criteri diagnostici inoppugnabili. Non sono uno psichiatra, ma ritengo che il
loro lavoro consista, per certi versi, nel toccare ogni giorno con mano il
fatto che non basta che il cervello funzioni perché gli atti delle persone
siano sensati ed adeguati.
Jung diceva di non essere certo che la psiche
dipenda esclusivamente dal cervello. La ricerca negli ultimi vent’anni ha
insegnato che si può cercare il correlato biochimico di uno stato d’animo o di
un impulso aggressivo, ma non si può trovare quello di un delirio
cosmico-religioso o esistenziale.
Con la teatroterapia, come con la musicoterapia e
l’arteterapia, cerchiamo di intervenire sulla parte sana della persona. Il
nostro compito è di rafforzare ritualità soggettivi, rendendoli patrimonio
condivisibile nel gruppo, anche nel caso siano sintomi psicotici, nella
convinzione che il sintomo è quasi sempre positivo in quanto manifestazione di
vitalità e quindi possibile scambio performativo.
13 - Su quale
principio funzionale agisce il teatro rispetto alla psiche?
Il paradosso dell’identità è l’oggetto di studio
comune della psicopatologia e dell’arteterapia.
In realtà noi siamo indefiniti e multipli, proprio
come avviene nello spazio e nell’azione teatrale, che non a caso rappresenta la
metafora più analogicamente vicina al fluire della vita di ogni giorno, così
vicina da potersi confondere con essa.
L’io si viene a formare soprattutto nei processi
d’identificazione ed assomiglia ad un gran teatro con tanti copioni e
tantissimi personaggi che, a volte, si parlano addosso, a volte litigano, a
volte si capiscono.
Nel setting di teatroterapia questi personaggi hanno
modo di essere esternati e interpretati direttamente attraverso il gioco del
“facciamo finta che”. Un gioco simbolico
che mette l’attore in contatto con oggetti, forme e recitati che appartengono
sia all’inconscio personale che a quello collettivo.
Non stupisce che il teatro può rappresentare un
impareggiabile punto di riflessione sull’uomo concreto e la sua fatica a
coniugare mente e corpo, fenomeni percettivi e processi creativi, spontaneità e
controllo, originalità creativa e convenzionalità culturale, pluralità di
copioni e unicità di personalità.
L’immaginazione poetica vissuta pienamente sulla
scena teatrale consente una leggera trance o trasmutazione dell’essere
restituendo all’attore una visione rinnovata del mondo.
14 - Come si diventa teatroterapeuta?
Frequentando la scuola di specializzazione che dura
tre anni ed è rivolta a psicologi, insegnanti di teatro, educatori. Nel primo
anno si agisce facendo esperienza di terapia su se stessi, nel secondo si
lavora sul progettare e sul guidare un gruppo, nel terzo si perfezionano le
proprie lacune didattiche. Naturalmente vi è anche una parte teorica, lo studio
intorno al teatro di ricerca, la psicologia dinamica, sistemica e relazionale,
le tecniche di terapie di gruppo a mediazione corporea, i processi
dell’osservazione e di valutazione, la drammaturgia nei suoi aspetti
antropologici.
15 - In conclusione…
La finzione teatrale realizzata in forma di ricerca
psico-fisica sul gesto, il suono della voce, la libertà e la costrizione del
movimento nello spazio mette spesso in contatto l’attore-paziente con la sua
controparte inconscia, quella femminile nell’uomo e maschile nella donna,
congiungendole in un gioco delle parti che Jung ha definito individuazione,
Grotowki lampo di luce e noi una prospettiva ideale che rende l’ignoto sempre
più ignoto, se non fosse per la visione della forma drammaturgia che ha bisogno
di svelarsi per rivelarci quello che è.